Giorgio e Gino sono proprio amici. Cioè, si vede proprio che si vogliono bene.
Per quanto il bene che può volerti un gatto sia strettamente correlato ai grammi di cibo che gli elargisci e a quanti stronzi elimini quotidianamente dalla sua lettiera -schiavo-, Gino a Giorgio vuole bene. A suo modo, eh. Però gli vuole bene. Si vede. Gli strizza sempre gli occhi. E gli etologi dicono che è il modo in cui i gatti mandano i baci. Si fanno le coccole: uno accarezza, l’altro impasta, con quel gesto strano che fanno i gatti e che spesso mi fa pensare che stia cercando di farlo lievitare bene per poi mangiarselo. Ma forse anche no.
Con me, invece, ha tutt’altro tipo di rapporto. Gino, non Giorgio.
Il più delle volte ci piacciamo. Ci troviamo belli. Ogni tanto ci cerchiamo pure. Però anche basta così grazie. Lo adoro, sia chiaro. Io che non lo volevo. Però, dopo cinque anni e mezzo, ci stiamo ancora studiando. Sarà che io gli faccio un sacco di dispetti, lo rincorro, imito incontri di boxe quando è nel suo cestino ad altezza avversario. E lui è pigro. Pigro di una pigrizia ai limiti dell’accidia capitale: Gino gioca, si arrabbia, ti respinge, ti seduce, sempre da sdraiato. E quindi, ogni tanto, un po’ anche mi odia. E mi rosicchia le caviglie. Da sdraiato, ovviamente.
Dicono che i gatti ti percepiscono come un loro simile: cioè un gatto gigante che cammina in modo strano da cui dipende la sopravvivenza del branco. Peccato che, a differenza di noi umani che conduciamo mediamente delle esistenze di merda, Gino ha una vita bellissima, così piena di niente che l’evoluzione lo farebbe retrocedere, se non fosse per i suoi veri conspecifici selvatici.
Un po’ lo invidio, perché per lui il lunedì è un giorno come un altro: nanna cacca nanna cibo nanna nanna cibo nanna coccole nanna nanna giochia...no nanna nanna cibo nanna.
Beato Gino, con la sua vita senza lunedì.
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